Luca Banchi: 'Da Grosseto all'Olimpia'
Coach Luca Banchi è in copertina nel 'Game Program' della partita contro Strasburgo
Genuino, sanguigno, orgoglioso, grande lavoratore. Luca Banchi a 48 anni sente di essere al top della sua professione, della maturità e dell’energia. La sua storia di allenatore cominciata da una città molto poco cestistica come Grosseto l’ha portato a Milano, nel club più titolato d’Italia nel momento giusto per reggere la sfida, sentendo il giusto livello di pressione e la consapevolezza di poterla reggere. Questa è una storia istruttiva, perché spiega come si possa partire dal nulla e arrivare in altissimo, passando per il lavoro, la gavetta, persino qualche passo indietro. Luca Banchi – “tre giocatori che vorrei allenare? Diamantidis, Spanoulis, Kirilenko” -ce la racconta.
PERCHE’ ALLENATORE - “In realtà hanno deciso altri per me. In particolare quando giocavo il mio allenatore mi spinse a fare i corsi di formazione intuendo che potessi avere le caratteristiche tecniche e morali per farlo bene. Quindi è cominciato tutto quasi per caso. Ho realizzato che sarebbe diventato il mio lavoro solo quando, arrivato a Livorno, nel settore giovanile del Don Bosco, il tanto tempo passato in palestra mi ha costretto ad abbandonare gli studi universitari e al tempo stesso sentivo crescere forte dentro di me la passione per uno sport che è sempre stato il mio preferito”. Ma nella famiglia Banchi anche un altro sport, il baseball, ha avuto un ruolo importante soprattutto nella natia Grosseto dove il “batti e corri” fa parte della cultura locale. “Il baseball è arrivato successivamente a casa mia. Ho un fratello (poi manager di Grosseto baseball-ndr) e una sorella più grandi di me ma anche loro giocavano a basket. Soprattutto, la nostra famiglia si trasferì a Montecatini quando io avevo tra i 10 e i 14 anni e quella era un’altra città con una forte impronta cestistica. In quel periodo ho avuto la consapevolezza di quanto amore potessi avere per la pallacanestro”. Per il baseball non ci fu posto quindi. Banchi iniziò a Grosseto, arrivò a Firenze nelle minori, ebbe un’esperienza alle Forze Armate e infine il grande salto a Livorno ma sempre per lavorare sui giovani. E qui, Banchi vinse anche tre scudetti juniores consecutivi. “In quel momento particolare della mia vita, il basket giovanile era al centro delle mie passioni, quindi gli scudetti valevano tantissimo. In più c’era il rapporto con questi ragazzi che dopo la categoria allora junior spiccavano il volo verso il professionismo, quindi a loro mi legava un rapporto particolare, duraturo, quasi inscindibile. Gli scudetti senior rappresentano grandi ricordi ed emozioni ma da un punto di vista umano i titoli giovanili sono un’altra cosa”.
LA FILOSOFIA - “Ci sono allenatori che hanno uno stile spiccatissimo – spiega il coach -, qualche volta fin troppo condizionante, mentre ritengo che un allenatore debba dimostrare capacità di adattamento al materiale umano a disposizione anche quando non si sposa esattamente con le sue idee. Io ho principi in cui credo molto ma esulano dall’aspetto tecnico e riguardano soprattutto la disciplina, l’armonia, il rispetto delle regole. Questo è quello che chiedo. Penso anche che tecnica, tattica e gestione psicologica siano parimenti importanti. Non si può prescindere dall’aspetto tecnico e dalla capacità di leggere le situazioni e in questo è fondamentale il supporto di uno staff come quello che ho avuto la fortuna di avere anche in passato. E poi c’è l’aspetto psicologico che ha una valenza chiave perché ci confrontiamo con professionisti maturi e un alto livello di professionalità. Non parlo solo di giocatori ma anche dello staff allargato, tecnici, medici, fisioterapisti, preparatori atletici, dirigenti. Un coach deve rendere conto a tante persone”.
L’OLIMPIA DI PETERSON - Luca Banchi era nel pieno della crescita personale, quando l’Olimpia viveva i suoi anni gloriosi nell’era Peterson. Per lui aspirante allenatore, quella squadra era un mito. “E’ vero, ha contribuito a far lievitare la mia passione. La famosa Banda Bassotti costruita da Coach Peterson ha appassionato non solo me ma tutta Italia. L’amore per questa squadra è sbocciato definitivamente quando le immagini di Mike D’Antoni hanno cominciato a fare il giro d’Italia: io a quei tempi giocavo playmaker e quello è diventato come per altri nella mia situazione un modello di riferimento, cui ispirarsi. In generale l’Olimpia, come Varese, Cantù, Bologna, rappresenta la tradizione, ha scritto pagine di storia e per chi è appassionato di basket questo ha un valore speciale”. Fino ad arrivare appunto ad allenarla, la squadra di Milano.
MODELLI - Peterson è uno dei modelli di Banchi come allenatore ma ce ne sono altri. “Non mi vergogno – spiega – a dire che mi ispiro a tecnici che fanno parte della grande tradizione dei coach italiani come il livornese Gianfranco Benvenuti, il grande Dido Guerrieri ma anche Sandro Gamba e nell’era moderna Ettore Messina è stato un esempio per tutti noi. La nostra scuola è una delle migliori d’Europa: una volta c’erano i balcanici ma adesso si può parlare anche di scuola italiana. In Eurolega ho visto coach stranieri di alto livello, naturalmente Obradovic, ma sono molto attratto da Xavi Pascual del Barcellona che ha idee innovative”.