La fine dell'era Van Gundy a Detroit
Dopo quattro stagioni, i Pistons hanno deciso di separarsi dal coach e presidente esecutivo della franchigia: i perchè della scelta e un riepilogo dell'esperienza di SVG a Detroit
Nella giornata di ieri, i Detroit Pistons hanno messo ufficialmente fine all'era Stan Van Gundy. Il coach e presidente esecutivo, infatti, è stato sollevato dal suo incarico dopo quattro stagioni. Nonostante la terminologia utilizzata, si è trattato di un licenziamento. Tom Gores, il proprietario di Detroit, aveva deciso già da qualche mese che Van Gundy non avrebbe avuto più poteri assoluti all'interno del front office e la prospettiva che Van Gundy ritornasse per il suo ultimo anno di contratto come 'mero' coach rasentava lo zero. Del resto, Van Gundy quattro anni fa aveva scelto i Pistons proprio perchè gli veniva garantito un tipo di autonomia e di potere operativo che nessun'altra franchigia era disposta a concedergli (Van Gundy, infatti, era anche nel mirino dei Golden State Warriors ma disse no alla proposta proprio perchè gli Warriors non avevano intenzione di mettergli le chiavi del front-office in mano).
In quattro stagioni, Van Gundy ha centrato i playoffs solo una volta, nella stagione 2015-2016, raggiungendo l'ottavo posto ad Est e venendo, poi, eliminato dai Cleveland Cavaliers con un secco 4-0. Guardando ai soli risultati, si potrebbe definire l'esperienza Van Gundy in quel di Detroit come fallimentare ma, come al solito, bisognerebbe analizzare la situazione un po' più in profondità, valutando anche quello che Van Gundy aveva ereditato dalla precedente gestione.
Quando Van Gundy è arrivato sulla panchina di Detroit, infatti, i Pistons venivano da 5 stagioni consecutive senza playoffs e in una sola di queste stagioni erano riusciti a vincere almeno 30 partite. Il roster ereditato da Van Gundy era totalmente squilibrato, con tre giocatori come Drummond, Monroe e Smith che per rendere al meglio dovevano tutti giocare da centro, cosa ovviamente impossibile. Il mandato di Tom Gores era semplice, almeno nella sua visione: tornare a competere ad alti livelli e farlo, possibilmente, nel minor tempo possibile. Ogni ipotesi di ricostruzione del roster partendo dal draft era assolutamente fuori discussione. Niente tanking dunque, ma trovare giocatori complementari ad Andre Drummond, che a Detroit vedevano come la superstar attorno a cui costruire il resto del roster. E non si può certo dire che Van Gundy non ci abbia almeno provato, soprattutto portando a termine delle trades che puntavano a migliorare la squadra nell'immediato ma che avevano anche un minimo di prospettiva futura, puntando su giocatori che stavano per entare nel prime delle loro carriere, lampanti gli esempi di Reggie Jackson e Tobias Harris. Per arrivare a Jackson, Van Gundy ha oggettivamente sacrificato l'immediato per avere un playmaker più affidabile in prospettiva futura. I Pistons, infatti, persero 10 delle prime 11 partite giocate con Jackson a roster. Nel suo atteggiamento di costruzione del roster, Van Gundy non merita la critica del 'voleva vincere tutto e subito'. Ha preso, quasi sempre, decisioni ponderate e che hanno oggettivamente migliorato il livello complessivo della squadra. Ha blindato Andre Drummond ma ha anche deciso che non valeva la pena spendere una barca di soldi per trattenere Greg Monroe e Kentavious Caldwell-Pope. Nel draft, sicuramente, qualcuno continuerà a fargli pesare la decisione di aver scelto un giocatore come Luke Kennard prima di Donovan Mitchell quest'anno ma è altrettanto vero che si contano sulle dita di una mano gli addetti ai lavori che erano pronti a scommettere che Mitchell potesse avere l'impatto avuto già nella sua stagione da rookie.
Se c'è una colpa che si può davvero imputare a Van Gundy durante la sua gestione, è quella relativa all'eccessiva spesa fatta su role players durante la free-agency. Contratti che non hanno davvero cambiato la squadra in meglio ma che hanno finito per ingolfare eccessivamente il salary cap, rendendo, dunque, la vita estremamente difficile a chiunque sarà il successore di Van Gundy. Avendo il totale controllo del front-office (anche il GM Jeff Bower, infatti, è un uomo scelto da Van Gundy), Van Gundy ha potuto spendere direttamente durante la off season, senza dover aspettare l'ok di qualcuno più in alto di lui. Questo, con ogni probabilità, lo ha portato a prendere delle decisioni affrettate e non sufficientemente consigliate. Ragionando da coach, Van Gundy ha speso soldi per coprire dei buchi all'interno del roster, senza pensare tanto al peso salariale che, alla lunga, questi contratti avrebbero portato. I contratti firmati da Jodie Meeks, Aaron Baynes, Ish Smith, Jon Leuer, Langston Galloway sono tutti il frutto di buchi all'interno del roster che Van Gundy vedeva e che decideva di risolvere a modo suo, senza aspettare più di tanto. Quando, forse, negoziando un po' di più e aspettando l'evolversi del mercato, si sarebbero potuti strappare dei prezzi migliori, rispetto a quelli concretamente pagati. Jon Leuer guadagna praticamente 10 milioni di dollari all'anno perchè Van Gundy ha visto in lui un quattro/cinque in grado di allargare il campo e dare quella dimensione perimetrale che a Detroit mancava. Il problema è che Leuer non ha neanche lontanamente tirato da 3 con le stesse percentuali che si erano viste a Phoenix (29% contro poco più del 38% della stagione a Phoenix). Langston Galloway veniva visto come una guardia in grado di tirare con più del 40% da 3 ma, arrivato a Detroit dopo aver firmato un triennale interamente garantito da 21 mln complessivi, è arrivato a malapena al 34%, al di sotto della media NBA, con i Pistons. Erano gli uomini di Van Gundy e li ha firmati, senza pensare più di tanto ai difetti intrinsechi in ognuno di loro. Per alcune di queste firme, alcuni hanno accusato Van Gundy di essere ancora affetto dalla 'sindrome di Rashard Lewis', cioè l'ipervalutare un giocatore per le sue capacità all'interno di un sistema, pensando che sia perfettamente in grado di riprodurle anche in un contesto diverso.
La trade per Blake Griffin
Veniamo all'ultima mossa della gestione Van Gundy: l'arrivo di Blake Griffin dai Clippers in cambio di Avery Bradley, Tobias Harris e Boban Marjanovic. Anche in questo caso molti hanno descritto l'operazione come il canto del cigno di Van Gundy o il suo estremo tentativo di salvarsi il lavoro con una 'win-now move'. Ma come riportato da diversi reporter, incluso Zach Lowe di ESPN, la mossa Blake Griffin è stata voluta praticamente da ogni singolo componente dei Pistons, incluso Tom Gores.
Seeing a lot of "well then why did Detroit let SVG make the Blake Griffin deal?" That wasn't nearly as Stan-driven as people think. Everyone was on board with it. Was never some sort of SVG Hail Mary
— Zach Lowe (@ZachLowe_NBA) 7 maggio 2018
L'arrivo di Griffin, invece, è l'ennesimo segnale di una proprietà che avrebbe fretta di tornare a competere ma che non riesce a comprendere che questo tipo di mosse, spesso, non portano necessariamente ai risultati sperati. Dopo un buon inizio nelle prime partite post trade, infatti, i Pistons sono crollati e hanno definitivamente abbandonato la corsa all'ottavo posto ad Est, con Griffin che ha saltato anche le ultime 8 partite di regular season per un problema alla caviglia.
What's next?
Un po' come all'arrivo di Van Gundy, chiunque erediterà la panchina dei Pistons si ritroverà in una situazione non semplice. Un roster non esattamente bilanciato e una situazione salariale che non permetterà miglioramenti facili nel breve periodo. Detroit, infatti, ha già quasi 112 mln di dollari in contratti garantiti per la prossima stagione, ben al di sopra del cap, che si dovrebbe aggirare attorno ai 101 mln di dollari. Il tutto senza contare i contratti di Bullock, Moreland e Buycks, tutti solo parzialmente garantiti, che porterebbero il totale a quasi 118 mln di dollari. Con così poca flessibilità, sarà difficile trovare aiuto da mettere attorno a Blake Griffin, che rimane un signor giocatore ma che ha comunque una storia di infortuni piuttosto lunga e come qualunque altra star della lega ha bisogno di un certo tipo di supporting cast per rendere al meglio. Reggie Jackson, Andre Drummond, Reggie Bullock, Ish Smith, Luke Kennard, che ci sia del talento in questo roster è indubbio ma il fit tra i vari giocatori continua ad essere quantomeno discutibile e con l'attuale situazione salariale fare stravolgimenti sarà estremamente difficile. Si parla già di Brent Barry come possibile candidato al posto di GM, con qualcuno più esperto a ricoprire il ruolo di presidente delle operazioni sportive. Barry è un ex cliente di Arn Tellem, uno dei principali decision makers di questi Pistons. E visto che per il ruolo di nuovo presidente si parla di una figura di una certa esperienza, sembra già da escludere la possibilità che Chauncey Billups possa rientrare nella franchigia. Per quanto riguarda l'allenatore, invece, i Pistons potrebbero doversi accontentare di una figura decisamente meno esperta e carismatica di Van Gundy. I Bucks restano la panchina più appetibile tra quelle disponibili in NBA al momento, ma quella dei Pistons non sembra essere necessariamente tanto più 'sexy' di quella dei Magic, degli Hornets o degli Hawks. Si, ci sono Griffin e Drummond, più qualche giovane sul quale poter lavorare ma il resto è quasi del tutto campato per aria, e l'ambiente generale attorno alla squadra non è proprio dei più allegri. E storicamente i Pistons non hanno mai avuto molta fortuna con gli allenatori alla prima esperienza assoluta da head coach.
The writing was on the wall
La fine dell'era Van Gundy segna, con ogni probabilità, anche la fine dell'era dei coach-presidenti in giro per la NBA. Quel tipo di figura, infatti, sembra ormai essere un lusso che la maggior parte delle franchigie non vogliono e non possono permettersi. In quel di Los Angeles a Doc Rivers sono stati tolti i poteri di gestione del front office, cosa che era già successa anche ad Atlanta con Mike Budenholzer. Gli unici due esempi rimasti sono quelli di Gregg Popovich a San Antonio e Tom Thibodeau a Minnesota. Se il futuro di Popovich sulla panchina di San Antonio è in discussione per motivi che esulano totalmente il basket, ai Timberwolves qualcuno si sta già chiedendo se dare tutta quella autorità a Thibs sia stata davvero una buona idea.
L'addio di Van Gundy, soprattutto dopo l'ultima stagione, era abbastanza prevedibile ma ciò che era altrettanto pronosticabile era la bassissima percentuale di successo del progetto di Tom Gores, cioè vincere in fretta con un roster costruito in modo schizofrenico, semplicemente mettendolo in mano ad un buon allenatore con un certo tipo di pedigree alle spalle. Quello che molti proprietari in giro per la NBA continuano a far fatica a comprendere è che stare in mezzo nella lega è una posizione davvero scomoda. Continuare a vivacchiare, sperando ogni tanto di poter fare un primo turno ai playoffs, alternato da qualche stagione ricca di mediocrità per arrivare a 30-35 vittorie, anzichè realizzare che la squadra ha bisogno di un percorso di ricostruzione più profondo e che necessita, inevitabilmente, di maggior tempo per essere portato a termine, è quello che davvero divide una proprietà con una visione da una che vive di status. Se il prossimo allenatore che starà sulla panchina dei Pistons, chiunque esso sia, riceverà lo stesso tipo di incarico che è stato chiesto a Van Gundy, le chances di successo saranno, ancora una volta, molto ridotte. E quando gli insuccessi continuano a susseguirsi, forse non è tutta colpa degli allenatori, perchè il pesce puzza sempre dalla testa.