Ettore Messina: 'Io, paisà nella NBA'
Intervista al tecnico italiano ora ai Los Angeles Lakers
Articolo de La Stampa, di Francesco Carotti
A volte la voglia di una nuova sfida è la motivazione più bella che ti spinge a tentare. Anche quando sei una sorta di leggenda del basket europeo come lo è Ettore Messina, un orgoglio per tutta l’Italia cestistica. Ecco perché quando questa estate il coach catanese ha ricevuto la chiamata dai Los Angeles Lakers non ha potuto dire di no. Mike Brown, che anni prima era stato a Mosca a seguire i suoi metodi di lavoro con il Cska, ha deciso di portarlo con sé in quella che è «un’esperienza impagabile, che mi farà tornare in Europa notevolmente arricchito». Nel vecchio continente Messina aveva vinto tutto. Ora è il «senior assistant» del capo allenatore dei Lakers, andando a ricoprire - con tutte le differenze del mondo - un ruolo «pesante», quello che aveva avuto il leggendario Tex Winter per Phil Jackson.
Messina, non sarà capoallenatore ma c’è comunque una fetta importante di Italia nella squadra più blasonata del mondo: i Los Angeles Lakers.
«Vivo questa nuova sfida con molta curiosità. Coach Brown è un tipo che ascolta e ha una capacità di coinvolgerci in ogni allenamento, con una lunga riunione prima e un briefing dopo, per vedere dove e in cosa si può migliorare. Questo rende il mio lavoro estremamente interessante anche dopo 22 anni da capo allenatore».
Eravamo abituati a vederla in prima fila. Ci spiega qual è oggi il suo compito ai Lakers?
«Cercare di dare a Brown la mia impressione globale sul lavoro che facciamo. Nello specifico mi occupo un po’ di più della fase offensiva, cercando di capire se e dove si può fare qualche modifica. Dopo ogni partita devo rivedere ciò che abbiamo fatto, più che pensare al prossimo avversario».
Insomma, sta portando un po’ di Europa a Los Angeles...
«Ma no. Dico a Brown come la vedo io e come la vediamo noi in Europa. Per esempio sull’utilizzo degli spazi in attacco. Insomma, gli do la mia impressione, poi decide lui in base a un’esperienza decennale nella Nba. Perché nei pro alcuni accorgimenti europei possono dare un grande aiuto, ma altri, a causa delle diverse regole difensive, non si possono fare».
Che impatto ha avuto con il pianeta Nba?
«Ho sfatato molti miti. Soprattutto il fatto che le squadre lavorano poco e sono un po’ “zuzzurellone”. Ho visto gente molto esigente, campioni come Bryant che vogliono sempre fare passi avanti. E poi diciamo che vedo un’organizzazione molto “europea”. I miei colleghi hanno una capacità assolutamente unica di essere assistenti: c’è dietro un lavoro di cesello che mi entusiasma. Anzi, a volte ho addirittura l’impressione di non essere all’altezza, per questo credo che possa ancora migliorarmi molto».
Fra mercato e nuovo staff, è vero ciò che dicono in molti e cioè che per questi Lakers sarà un anno di transizione?
«Impossibile dire una cosa del genere per una squadra di questo blasone. Qui transizioni non possono esistere. L’obiettivo è sempre competere per l’anello. Che poi si vinca è un altro discorso. Giorno dopo giorno stiamo cercando di capire ciò che valiamo».
Lei è uno che vuole vincere anche quando gioca a carte. Come si è calato in un mondo che rispetto all’Europa dà meno peso a una sconfitta in stagione regolare?
«Più che altro mi aiuta il ritmo. Non c’è tempo per dare troppe interpretazione al perché hai perso. Il calendario aiuta a guardare avanti».
Nella sua carriera ha allenato campioni immensi. Adesso ha la possibilità di lavorare con il più forte al mondo, Kobe Bryant. Com’è il suo rapporto con il «Black Mamba»?
«Io sono una minuzia rispetto a lui. Lo studio ogni giorno in allenamento, mi affascina molto come giocatore e come persona. E in punta di piedi cerco di stabilire con lui un minimo di rapporto. È educato, disponibile e in campo è estremamente esigente. Ha le stimmate del campione. Vivere vicino a uno così è un’esperienza nell’esperienza».
Ha la sensazione che l’infortunio di Bryant al polso sia davvero tanto grave da condizionarne la stagione?
«È un problema importante per una persona normale. Ma lui è capace di giocare sul dolore e andare oltre a questo. Insomma, ci sta convivendo e ha la capacità per farlo».
Il futuro di Messina è in America o prevede un ritorno in Europa?
«In questo momento voglio costruire un percorso qui. Ma non immagino di poter diventare un capo allenatore nella Nba, è un processo troppo lungo e difficoltoso».
Da lontano avrà visto il nuovo scandalo di scommesse che ha travolto il calcio. È un male inestirpabile dal più famoso sport italiano?
«Niente è inestirpabile. In Inghilterra lo dicevano anche degli hooligans e in pochi anni sono riusciti a porvi rimedio. Non si può raccontare a un ragazzino che si gioca in un sistema dove le partite sono decise a tavolino. Basta buonismo: a chi fa queste porcherie vanno date tante randellate che se le deve ricordare per tutta la vita».
Da osservatore esterno è preoccupato per il basket italiano, che sembra ormai un movimento stagnante?
«Il problema c’è, ma allo stesso tempo ci sono realtà con idee e progetti tecnici. Bisogna far qualcosa e presto: mettersi tutti attorno a un tavolo, con una persona che prenda decisioni forti come tagliare il numero delle squadre o ordinare i campionati in modo che ci sia un collegamento tecnico e di prospettiva per far crescere i giovani. Se non lo fanno, con l’Eurolega che giocherà giovedì e venerdì, i campionati potrebbero avere spazi sempre minori, anche a livelli di sponsor e media. Forse ci vorrebbe un Mario Monti anche per il basket italiano».
O forse più gente come Messina...
«Ettore Messina lasciamolo tranquillo. Lui fa l’emigrante. L’emigrante tranquillo».
Francesco Carotti