Shawn Kemp su The Players' Tribune: Mi mancano i Sonics
Kemp scrive su The Players' Tribune
Le persone, quando mi vengono a trovare, mi dicono cose del tipo: “Hey, dove stai vivendo in questo periodo, amico? ”
“A Seattle, amico. Non sono mai andato via.”
Nessuno mi crede quando li dico che sono praticamente rimasto qui fin dal 1989. Voglio dire, dopo che lasciai i Sonics per Cleveland – più o meno intorno al ‘97 – sono stato in giro un po' prima che finissi la mia carriera. Ma anche quando giocavo in Italia, ho sempre mantenuto la mia casa a Seattle. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che un giorno vi sarei tornato. E, sapete, molte cose sono cambiate qui. Il cuore della cultura è ancora lo stesso. Ma sono cambiate molte cose.
Però amico, la città non è la stessa cosa senza la pallacanestro. Non è più come una volta.
È buffo a pensarci adesso, ma nel ‘89 ero la persona più giovane della NBA. Un ragazzo di 19 anni – e sono il primo ad ammettere che non sapevo niente su come essere un professionista, vivere da solo o qualsiasi altra cosa del genere. Infatti, non mi sembrava tutto questo grande affare. Ero giovane e affamato. Volevo schiacciare in faccia a tutti, uscire fuori la sera e, la partita dopo, schiacciarli nuovamente in testa.
Fui fortunato. Molti ragazzi che arrivano nella lega con quella mentalità non durano a lungo. Io ho imparato da ragazzi come Xavier McDaniel, Nate McMillan, Micheal Cage – i veterani che giocavano a Seattle quando arrivai lì. Mi insegnarono che c’era molto di più che schiacciare in testa agli avversari.
Il mio anno da rookie fu una grossa transizione per me. Ero un teenager che doveva iniziare a seguire delle regole, lavorare sodo tutti i giorni in palestra, studiare nei momenti morti lo stile di gioco degli avversari – dovevo semplicemente educare me stesso alla pallacanestro. Si dice spesso che sia solo un lavoro, ma lo diventa realmente solo se impari ad approcciarlo come tale.
Quindi questo è stato in pratica il mio anno da rookie – crescere un po’. Quando tornai per la mia seconda stagione ero pronto a mostrare tutto il mio potenziale. Niente mi avrebbe distratto dall’essere dominante.
Avevamo la seconda scelta al draft quell’anno.
Selezionammo questo “gatto” chiamato Gary Payton.
Gary aveva già creato molto hype su di sé, soprattutto nell’area tra Oregon e Washington. Era un All-american. Era già stato sulla copertina di Sports Illustrated.
Mi ricordo la prima volta che lo vidi giocare. Era il mio anno da rookie. Mi pare fosse un venerdì sera e, il nostro GM, Bob Whitsitt, mi chiamò. Mi disse di guardare alla televisione la partita tra Oregon State e USC perché era probabile che quel Gary Payton sarebbe potuto diventare un mio futuro compagno di squadra. Era bello che il tuo GM ti chiedesse di fare lo scout – di guardare un futuro prospetto NBA. Fino a quel momento avevo cercato di essere un professionista e un buon compagno di squadra. Volevo prendere il mio lavoro seriamente.
Sapete qual è il mio ricordo più vivido di quella partita? Il trash talking di Gary. Non il suo ball handling o la sua difesa, bensì il suo trash talking. Parlava a tutti. Da prima che iniziasse la partita fino al suono dell’ultima sirena quel ragazzo parlava continuamente – e non diceva battute scherzose, ma cose da vero trash talker. Parlava sia in attacco che in difesa, ai giocatori in panchina, ai fan di USC, agli arbiti – non importava a chi, lui parlava. Nessuno era al sicuro. Ricordo che cercavo di avvicinarmi con la sedia allo schermo della televisione per provare a capire cosa stesse dicendo al coach di USC. Il coach avversario, amico! Un ragazzo del college. Mi piaceva. Gary aveva qualcosa da dire a tutti.
Finì la partita con 58 punti, se non ricordo male.
Appena la partita si concluse, chiamai il nostro GM.
“Se prendiamo un ragazzo come lui, non dovrai fare niente per motivarmi!”
Questo è ciò che gli dissi.
“Dobbiamo prendere Gary. Saremo fenomenali insieme.”
Bernie Bickerstaff era il mio coach durante il mio anno da rookie. Poi K.C. lo sostituì l’anno dopo, quello di Gary da rookie. Fin da subito, Gary e K.C. non andarono d’accordo. Dopo tutti questi anni, io e Gary parliamo ancora di K.C. e di quanto ci abbia insegnato e di quanto sia stato importante per la nostra crescita. Era un tipo severo, ma dovete ricordare che K.C. veniva dai Celtics, da una cultura vincente, da una squadra in cui aveva allenato i migliori giocatori della storia NBA. Lui disegnava schemi sulla lavagnetta per Larry Bird e Kevin McHale.
Poi tutto a un tratto, si era ritrovato a disegnare schemi per Gary e Shawn. Amico, eravamo dei ragazzi. Avevamo molto talento, ma non sapevamo ancora come utilizzarlo.
Penso che le persone non apprezzino pienamente quello che K.C. ha fatto per quei Sonics. In quel solo anno, ci ha insegnato molto su come essere maturi fuori dal campo così come in allenamento e in partita. Io e Gary parliamo ancora molto di quanto ci abbia formato per gli anni seguenti.
Una delle cose per cui, fin da subito, ho faticato tanto, è stato il riuscire a dare il mio contributo ogni singola partita. Nella NBA devi essere pronto a vincere ogni sera. So che è un cliché, ma la verità è che quando iniziammo a giocare con i Sonics, fummo fortunati. Loro erano erano già una squadra da 50% di vittorie, con veterani che conoscevano bene la lega. Noi potevamo andare in campo e giocare un buon basket semplicemente d’istinto. Fuori dal campo, io e Gary passavamo il tempo o nei bar o cazzeggiando a caso a giro. Abbiamo provato a fare così per un po’. Ma le grandi squadre NBA non si prendono mai serate di riposo. Non fai niente per tutto il week end e poi improvvisamente ti ritrovi a giocare contro una di queste grandi squadre e vieni preso a calci in culo.
Xavier e gli altri veterani hanno salvato me e Gary dall’avere carriere da dimenticare. Ci tenevano sul pezzo e provavano a responsabilizzarci. È buffo perché era un po’ più facile per quei veterani farti da mentore. Sicuramente ci volle un po’ di tempo a tutti per capire Gary. Come ho detto, quando sono arrivato in NBA, ero sicuro di me, ma ero pur sempre un ragazzino. Penso di aver capito che tutti gli altri mi vedevano come il teenager che veniva direttamente da una scuola pubblica dell’Indiana. Quando quelli più grandi di me mi dicevano di fare qualcosa, io la facevo. Non ne ho mai fatto una tragedia. È quello che succede durante l’anno da rookie, ci sono passati tutti. Dovevi probabilmente portare una borsa in più o portare una Coca Cola o un mazzo di carte a qualcuno. Per me non è mai stato un grosso problema.
Gary invece il contrario. Non hai mai fatto queste cose.
Era la seconda scelta al draft e si comportava come se nel suo contratto non rientrasse il portare la borsa di un compagno di squadra. I ragazzi a volte erano infastiditi dal suo atteggiamento, ma la maggior parte di loro lasciava correre la cosa perché sapevano che Gary aveva senza dubbio le capacità e il cuore per sostenere ciò che diceva. È come se, anche nel suo anno da rookie, tutti fossero sicuri che Gary sarebbe stato il futuro dei Sonics. Se tu facessi un conto di ogni giocatore e allenatore che inizialmente non andava d’accordo con lui, non avresti un gran numero di persone ecco. Pertanto, c’era sempre un periodo di adattamento. Ma ne valeva la pena.
Mentre Gary si ambientava, tutti ci accorgevamo di quanto fossimo fortunati ad averlo con noi e a non doverci giocare contro. Gary ci motivava in allenamento parlando continuamente. Ci rendeva migliori. Era un problema, il nostro problema.
C’è un aneddoto di una partita di preseason che Gary racconta, quella in cui sfidò Micheal Jordan e in cui lo stesso MJ lo ridicolizzò. Me la ricordo. Credo che per il resto della squadra vedere Gary andare faccia a faccia con MJ sia stato un atto simbolico. Fu un gesto enorme. Un ragazzo che attaccava briga con il bullo della scuola.
Sono fortunato ad aver visto MJ nel suo prime, in modalità “sono venuto a farti il culo” nei primi anni ‘90. In quel momento ero stato nella lega solamente un anno, ma dai andiamo – non ci voleva molto per capire che quando giocavi con Micheal potevi tirar fuori anche la miglior partita della tua vita o giocare in casa o per il tuo compleanno – poteva avere anche la dannata influenza – o qualsiasi altra cosa. Tutti gli episodi fortunati potevano essere a tuo favore e poi MJ segnava 25 punti nel primo tempo, tirando fuori la lingua… e prendendo di mira tutta la tua intera organizzazione. Lui viveva per quello.
Così quando vedemmo quanto Gary fosse impavido con Micheal, noi lo incoraggiammo. Ci avvicinammo tutti al suo orecchio, dicendogli di tenere duro e di non indietreggiare. Gary ci ha dato tutta quella grinta e carica che ha contraddistinto Seattle per gli anni che seguirono. Dopo un po’ di tempo ci eravamo fatti una reputazione. Seattle era una squadra fisica. Parlavamo continuamente in partita. Non importava se stavamo vincendo o perdendo, quelle squadre dei Sonics erano speciali perché pensavano di avere sempre una chance di giocarsela.
Quello fu il momento da ricordare, nel suo anno da rookie, per Gary. E non andò neanche poi così male. Micheal era Micheal.
Quando giocai per la prima volta contro Bill Laimbeer, mi venne data un po’ di quella “medicina”.
Era il 1989. Stavo uscendo dalla panchina durante il mio anno da rookie. I Bad Boys di Detroit erano ancora al culmine della loro carriera e venivano dal loro primo titolo.
Io avevo giocato bene per alcune settimane. Stavamo vincendo partite e schiacciavo in testa a tutti. Pensavo in pratica che avrei dominato per sempre, come quando giochi con i ragazzi di quartiere col canestro più basso.
Stavamo giocando con i Pistons quella sera ed era da poco iniziata la partita. Ricevei palla in post basso e schiacciai in faccia a Bill Laimbeer. Detroit chiamò timeout. Mi sentivo bene. Mentre stavo tornando in panchina, vidi Laimbeer che mi fissava.
“Mi sta fissando?”
Non credo che mi stia fissando. Gli ho appena schiacciato in faccia.
Così, di rimando, lo fissai anche io.
I Bad Boys non avevano ricevuto quel soprannome solo perché erano bravi in difesa. Erano ragazzi cattivi. Ti facevano male. Non ho mai giocato a basket con ragazzi come quelli.
Il timeout finì, prendemmo il rimbalzo, e nell’altra metà campo qualcuno mi passò la palla nel pitturato.
Laimbeer era dietro di me.
Non so cosa sia successo dopo. Mi sono risvegliato in ospedale.
Vi dirò una cosa. Dormo molto di più di quanto facevo prima.
Tutte le serate, a giro nei club, con Gary dopo le partite… Sembra sia passata un’eternità. Comunque, ogni tanto, io e lui stiamo un po’ insieme anche ora. Ma in maniera molto più tranquilla.
Mia mamma e quella di Gary sono diventate amiche. Ho conosciuto molto bene la famiglia di Gary e lui la mia. Non molto tempo fa, abbiamo visto anche i nostri figli giocare uno contro l’altro al college a Seattle.
È surreale, amico. Durante tutti questi anni, eravamo soliti scherzare su questa cosa, cioè sul fatto di vedere un giorno i nostri figli giocare a basket proprio come abbiamo fatto noi.
E ora li stiamo vedendo entrambi giocare al college – è semplicemente difficile da credere. Essere in grado di condividere un po’ delle esperienze che abbiamo avuto come giocatori con i nostri figli e con le altre famiglie… se guardate indietro al tipo di uomini che eravamo e a quanto siamo cambiati nel corso degli anni, è una cosa pazzesca.
Sono stato un padre durante tutta la mia intera carriera da giocatore. Sono mancato a molti momenti importanti per la mia famiglia proprio mentre ero in campo a giocare e, a volte, è difficile pensarci. E posso dirvi che certamente non sempre sono stato il miglior esempio per i miei figli. Ma ho sempre provato ad imparare. E alla fine impari che, come il basket, un impegno quotidiano è importante.
La paternità, il basket. Tutto richiede tempo. Tranne che per la paternità, nella quale non ci sono coach o veterani che si assicurino che tu stia facendo la cosa giusta. Te la devi cavare da solo per tutto il tempo. Veramente, sono davvero contento della mia famiglia, della mia carriera e di aver stretto alcune amicizie durature. Sono contento per ogni cosa.
“Stockton e Malone” è ciò che io e Gary eravamo soliti dirci sempre in allenamento. Loro erano i giocatori a cui ci ispiravamo, innanzitutto quando cercavamo di perfezionare il nostro gioco. Ed è buffo, questi sono due ragazzi di cui non potevi nominare uno dei due nomi senza automaticamente pensare all’altro.
È un onore ora quando sento le persone dire la stessa cosa su Gary Payton e Shawn Kemp. È qualcosa che va oltre la pallacanestro – una storia sul campo da gioco e una vera amicizia fuori dal campo, anche dopo tutti questi anni.
Sono sempre qui a Seattle, amico. Sono sposato da 23 anni. Sono passato da sprecare il mio tempo in giro ad essere un marito e un padre. Ho visto la città cambiare molto, ma è ancora una città con gli stessi fan sfegatati e una città che ama ancora il basket, anche senza una vera squadra per cui tifare. Fin dal giorno in cui sono arrivato, sono stato trattato molto bene dalle persone qui. E l’amore è durato molto più a lungo della mia carriera. Sono stato riaccolto a braccia aperte non appena i miei giorni da giocatori sono finiti.
Il basket mi ha portato in giro per tutto il mondo e, dopo aver visto un sacco di cose durante questi anni, posso affermare con assoluta certezza che non vorrei essere in nessun altro posto al mondo.
Però c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che ci manca. Dobbiamo riavere i Sonics.
Molti grandi momenti dello sport sono successi qui. Molte leggende del gioco hanno avuto i loro momenti qui a Seattle. So che per la NBA portare una nuova squadra qui potrebbe essere un problema, ma è una sensazione strana non avere i Sonics qui.
Credo che accadrà – un giorno avremo nuovamente una squadra. Non so come, o quando, ma me lo sento. La pallacanestro tornerà a Seattle.
E noi saremo ancora qui quando succederà.
Traduzione di Davide Battente