Malgrado tutto i Clippers sono la seconda miglior squadra della NBA
Mercoledì giorno di traduzioni di uno dei pezzi di Grantland. Oggi si parla di Los Angeles Clippers
Il mercoledì torna puntuale l'appuntamento con la traduzione di uno dei pezzi di Grantland a cura di Giacomo Sauro. L'articolo è stato scritto da Danny Chau ed ha come titolo "In Spite of Everything, the Clippers Are the Second-Best Team in the NBA".
Vi sento già mugugnare e lo capisco. In una delle migliori stagioni NBA di questo inizio di millennio, affermare che i Clippers vengono esattamente dopo i Golden State Warriors significa ammettere che abbiamo un grosso problema su come si è messa questa stagione. Ma non è più il primo aprile, non è il momento di scherzare. E se i Clippers fossero veramente così buoni?
I Clippers incarnano il concetto, squisitamente (della conference) occidentale, di eccellenza media, in cui le fasi di crescita e stagnazione non sono distinguibili e creano una bizzarra impercettibilità da stagione regolare. Certo, possono lottare per il titolo, però boh, tanto alla fine qualcosa andrà storto. È questa la bandiera che si portano appresso, la stessa che fino alla vittoria finale dello scorso anno si sono portati dietro per più di cinque anni i San Antonio Spurs. Ai Rockets e ai Grizzlies, anche loro vittime di questa eccellenza media, è concesso invece il beneficio del dubbio, perché James Harden è arrivato a lottare per il titolo di MVP nel mezzo di una serie infinita di infortuni a Houston, mentre i Grizzlies hanno abbracciato questa idea di eccellenza media al punto che la loro faticosa costanza è forse l’aspetto più intrigante della loro corsa all’anello (ma come una carne cucinata lentamente non è detto che sotto lo strato di affumicatura non si nasconda invece una delusione).
I Clippers trasmettono inconsistenza, e non solo per i problemi di roster. Non appena Chris Paul è arrivato in squadra sul tavolo è stata messa una clessidra. I giovani rampanti sono diventati messia in un attimo, e la squadra minore di Los Angeles si è trasformata in Lob City. Ma nonostante il costante miglioramento del record di vittorie in regular season, da quando è arrivato Paul i Clippers ancora non sono riusciti a evadere dalla prigione del secondo turno dei playoff. Non esiste la data di scadenza per gli unti del Signore, ma nel momento in cui ti riveli essere un falso messia diventi automaticamente l’Anticristo. Se non altro, almeno i Clippers non sono venuti meno alla nomea.
È un peccato. Tuttavia il fatto che questa squadra riesca ancora a infastidire e deludere così tanto dimostra quanto siamo capaci di preoccuparci. Forse allora il modo migliore per accettare i Clippers è scordarsi dei difetti e godersi la loro fatalistica strada verso il successo.
Malgrado tutto i Clippers si contendono con i Warriors il miglior attacco della lega. Malgrado tutto i Clippers nelle ultime settimane hanno giocato come una squadra difensiva d’élite. Prima della follia della partita di mercoledì (1 aprile, NdT) contro i Blazers, erano una delle tre squadre che, dalla pausa per l’All-Star, potevano vantare di essere fra le prime cinque per efficacia sia offensiva sia difensiva. Le altre due (Warriors e Spurs) vengono elogiate per la profondità del roster, mentre i Clippers vengono giustamente dileggiati per la ristrettezza. Malgrado abbiano una panchina che inizia regolarmente il secondo e il quarto quarto con grosse difficoltà nell’andare a canestro la squadra rimane una delle migliori della lega. Sono per distacco i candidati al titolo più deboli ma, a parte una sconfitta contro la migliore squadra della NBA, sono in crescita.
Secondo la stima delle vittorie attese (un calcolo vagamente basato su principi pitagorici usato per prevedere quante partite avrebbe dovuto vincere una squadra a seconda dei punti segnati e concessi, reso intrigante dall’uso di simboli matematici e dal riferimento al dio greco dei triangoli rettangoli) nelle ultime tre stagioni i Clippers avrebbero dovuto avere uno dei tre migliori record della lega, invece è dalla stagione 2011-2012 che non superano questa aspettativa; una sintesi perfetta di quanto abbiano deluso. Ma è anche un indizio di quanto ancora potrebbero essere forti. Hanno 30 vittorie con almeno 10 punti di scarto, superati solo dagli imbarazzanti Warriors, che ne hanno 43. Malgrado abbiano avuto il secondo calendario più difficile, sono tranquillamente al secondo posto in tutta la lega per le statistiche relative alla differenza punti, siano esse il margine medio di vittoria o la proiezione dello scarto su 100 possessi. In otto delle ultime dieci stagioni i campioni NBA sono stati tra i primi cinque per margine medio di vittoria, e in sei di quelle dieci stagioni direttamente o primi o secondi.
Tuttavia se i Clippers vengono inseriti tra gli aspiranti al titolo è solo perché tutto può succedere. Al momento in cui scrivo Vegas li quota 16 a 1, non malaccio ma neanche in primissima fascia. Quando parliamo delle migliori squadre della NBA parliamo di squadre che incutono timore. I Clippers suscitano al massimo una moderata apprensione.
I Miami Heat di LeBron fornivano agli appassionati di pallacanestro discreti motivi per tifare contro, ma almeno generavano rispetto, seppur riluttante, per quanto erano forti. Quando invece gli irascibili Clippers si scatenano, viene eclissato (o, peggio, svalutato) il prodotto che offrono sul parquet. Quando il loro livello di irritabilità raggiunge l’apice ci si trova addirittura a parteggiare per gli arbitri, e solo il Signore sa se esiste male peggiore.
I Clippers trovano il modo di trasformare tutto ciò che pensavi ti piacesse della pallacanestro in una blanda forma di tortura. Si rovinano la festa da soli. La stagione di Chris Paul è fra le migliori della sua carriera, e sarà anche l’archetipo del playmaker di questa nuova epoca, però Dio santo, chiudesse qualche volta la bocca. DeAndre Jordan è diventato finalmente quella forza granitica che la sua squadra sperava diventasse, ma quando la partita inizia a mettersi male perché ancora non riesce a segnare i tiri liberi, ci si scorda dei miglioramenti e si inizia a covare rancore. Matt Barnes è un classico difensore tosto, anche se metà del tempo la passa a provare nuove scenette idiote come fosse un comico in un club. Va a finire che del quintetto titolare il più neutro è J.J. Redick, per quanto da quando gioca gli sia piovuto odio sufficiente a scatenare tre o quattro guerre.
I Clippers poi sono diventati i maestri della partita dentro la partita. Se una squadra non rispetta il modo in cui giocano i Clippers, non rispetta neanche il gioco che i Clippers attuano nei loro confronti. Spallate, proteste eccessive, Matt Barnes: è tutto subdolamente pianificato come un fallo cercato da Harden.
I playoff sono tutta un’altra storia, lo ripetiamo tutti gli anni. Dalle quattro alle sette partite a stretto contatto con un’altra squadra; nessun modo di scaricare le tensioni; il limite di sopportazione che si abbassa. È una follia portata avanti con metodo, quella di Los Angeles. Se considerate i piccoli trucchi psicologici un talento, allora i Clippers non sono tra i migliori, sono i migliori.
La telecamera inquadra solo le scene madri, ma durante tutta la partita la semina è costante. Ecco che cosa cavolo accade durante le partite dei Clippers: se qualcuno di importante deve tirare un libero, diciamo Stephen Curry per un gioco da quattro punti, Barnes si piazzerà in mezzo all’area con le mani sui fianchi guardandosi intorno come se fosse la prima volta che si trova su un campo da basket per il tempo necessario a far capire che vuole darti fastidio ma insufficiente perché gli arbitri prendano provvedimenti; se, diciamo, Andre Iguodala e Leandro Barbosa si stanno dando il cinque, Redick, invece di fare il giro, passerà proprio in mezzo, come se quelli lo stessero aspettando per giocare a London Bridge (entrambe queste cose sono successe nell’ultima partita tra i Warriors e i Clippers). È nei dettagli che si vede il piano diabolico. I Clippers sono là che lanciano svogliatamente le loro esche psicologiche ed è solo questione di tempo prima che nei playoff abbocchi qualcuno.
E quando questo accadrà i Clippers pregano che gli avversari crollino come sono crollati i Blazers mercoledì scorso dopo il fallo antisportivo di Chris Kaman su Paul perché quest’ultimo si era appoggiato sui genitali dell’avversario.
I Blazers si sono lasciati risucchiare nel vortice e hanno comprensibilmente perso l’autocontrollo. I Clippers hanno segnato 45 punti nei 12 minuti e 25 secondi che rimanevano dopo il parapiglia e hanno vinto.
È stata una grande pagina di televisione, ed è probabile che se ne vedranno altre fra poche settimane. Forse però preferite il dramma dei Cleveland Cavaliers, anche se lì tutti gli ostacoli erano interni. La trama dei Cavs ruota intorno ai crescenti mal di pancia che nascono durante il #processo di autoassestamento; a dire il vero piuttosto noioso, e tra l’altro abbiamo già visto lo stesso film con Miami. L’unica differenza è che stavolta si può pure tifare per LeBron. Anche i Clippers stanno prendendo spunto da Miami: hanno assimilato il ruolo da cattivi del primo anno degli Heatles e lo stanno portando un gradino più alto. I Cavs stanno trovando loro stessi; i Clippers stanno creando un Nuovo ordine mondiale.
Magari credete che le progressioni finali di Cleveland e San Antonio possano essere più decisive, e magari avete ragione. Magari credete nel karma e nel fatto che più prima che poi i Clippers pagheranno per la loro malvagità. Ci viene sempre detto di concentrarci su ciò che è in nostro controllo, e questo per le squadre NBA generalmente significa impegnarsi e attenersi al piano partita su entrambi i lati del campo. Questo progetto a lungo termine dei Clippers, questo usare la stagione regolare per consolidare la propria pessima reputazione, è piuttosto ambizioso: stanno cercando di controllare il flusso emotivo delle partite. Si tratta di un articolato assalto alla lega ben più suggestivo delle impeccabili esecuzioni offensive e difensive. Ah, nel caso non ve ne foste accorti, i Clippers sono capaci anche di quelle.
Traduzione di Giacomo Sauro