La crescente importanza del draft NBA
Sono sempre meno le prime scelte scambiate nell'ambito delle trade
Negli anni scorsi non tutte le squadre NBA hanno destinato le risorse necessarie al draft, preferendo quasi sempre scambiare le scelte per veterani pronti all’uso – viene in mente Phoenix nel periodo con D’Antoni (tra le varie ‘perle’ ricordiamo Luol Deng e Rajon Rondo…) oppure gli Orlando Magic di Dwight Howard -, mentre altre ancora hanno commesso una serie di clamorosi errori di valutazione - Minnesota su tutte ma anche Charlotte ed altre ancora-.
C’è da scommettere che in futuro saranno sempre meno le franchigie che snobberanno il draft, ed il primo indizio di questa rinnovata importanza delle scelte è che negli affari tra le squadre intorno alla deadline di fine Febbraio solo una prima scelta ha cambiato padrone – quella che i Grizzlies hanno mandato ai Cavs come incentivo per accettare i contratti di Speights, Ellington e Selby -, nonostante più di un esperto guardi al prossimo draft come ad uno dei peggiori della storia (personalmente non sono d’accordissimo, è vero che manca una superstar alla Anthony Davis ma ci sono diversi atleti con caratteristiche tecniche e fisiche di alto livello ). Se si considera che negli anni precedenti venivano scambiate anche 5/6 prime scelte, l’inversione di tendenza è netta.
Il motivo principale è il nuovo accordo collettivo , che prevede pene pesanti per chi supera la soglia della Luxury Tax (che crescono ulteriormente se si supera il livello stabilito per più stagioni di fila), e quindi sconsiglia di privarsi di potenziali atleti a basso costo; a farne le spese inizialmente dovrebbero essere quei veterani che girano per la NBA a poco più del minimo salariale e che spesso occupano ruoli di minore importanza – e quindi attribuibile anche ad un più economico rookie - nella rotazione (come abbiamo visto nel caso di Memphis o dei Bulls in questa stagione, anche uno/due milioni di dollari diventano decisivi…). L’esempio perfetto di questa ‘strategia’ economica sono i Thunder, la cui panchina è formata da due giocatori importantissimi nelle rotazioni – Kevin Martin e Nick Collison-, e da altri che vengono chiamati in causa a seconda della situazione – Thabeet e Liggins per la difesa, Jackson ed il neo arrivato Fisher per la regia, mentre Jones, Lamb e Orton sono i prospetti per il futuro-. L’esempio opposto – che probabilmente continueremo a vedere solo nelle poche squadre che hanno disponibilità economica quasi illimitata…- sono i Knicks, che hanno riempito il secondo quintetto di super veterani – dal ‘rookie’ Prigioni all’ex Pesaro White, Rasheed Wallace e Kenyon Martin…- o costosi specialisti – Camby (firmato con un triennale) e Novak-, con il solo J.R. Smith (considerando Shumpert titolare) come eccezione.
Inoltre negli ultimi anni è cresciuto il numero di seconde scelte (dalla 31 alla 60, non hanno diritto ad un contratto garantito anche se in alcuni casi lo ottengono per volere delle squadre stesse) capaci di diventare importanti pedine nel giro di poco tempo; il caso più recente è quello di Chandler Parsons, ma senza tornare troppo indietro – Ginobili, Arenas, Boozer e Scola- troviamo anche Nikola Pexovic – perla dei T-Wolf al numero 31-, Goran Dragic, Danny Green, Omer Asik….
In definitiva sembra che nel prossimo futuro la maggior parte delle panchine NBA sarà composta da giovani da sviluppare piuttosto che da veterani a caccia dell’ultimo ingaggio ( che magari potrebbero rendersi disponibili per l’Europa…), e c’è da scommettere che i manager più lungimiranti non si faranno trovare più impreparati per l’appuntamento con il draft.