Derrick Rose e la maledizione dell’eroe di casa
Nella traduzione odierna da Grantland si parla di Derrick Rose dei Chicago Bulls
Derrick Rose è il protagonista odierno della traduzione di Giacomo Sauro di un articolo di Grantland. L'articolo è di Jason Concepcion ed ha come titolo "He Is From Chicago: Derrick Rose and the Curse of the Hometown Hero".
Era incontenibile. Esplosivo al punto da lasciare i fortunati spettatori a bocca aperta e occhi spalancati. Vi ricordate la schiacciata su Goran Dragic? Rose era una macchia rossa che sprintava per il campo; una macchia rossa che a un certo punto si lancia verso il cielo, alla faccia delle leggi della fisica accelera anche mentre è in aria, contorce il corpo, porta le braccia all’indietro e poi le butta in avanti, con le due mani sul ferro, sopra Dragic. Riatterra a gambe larghe; in mezzo c’è l’arena intera.
Quando la vede, Stacey King, seconda voce delle telecronache dei Bulls, dice la frase (dopo le urla euforiche di rito, naturalmente) che tutti stavano pensando: “Dragic, ma lo sai chi è questo ragazzo? Lui viene da Chicago”.
‘He is from Chicago’ è la didascalia alla carriera di Derrick Rose. È il concetto dietro ogni suo spot pubblicitario con Adidas, in particolare quello uscito dopo essersi rotto il legamento crociato anteriore durante la prima partita dei playoff 2012. La pubblicità inizia con la voce di Kevin Harlan (“Holding on to his knee... holding on to his knee and down”) e poi mostra varie scene di chicagoani pietrificati dallo shock e con il cuore spezzato, fino a che il suono della riabilitazione di Rose non li rimette in moto piano piano. Se esistono altre pubblicità sportive che hanno giocato sull’infortunio della star, e sugli effetti che l’infortunio ha avuto sulla città, io non me le ricordo. In quel singolo spot abbiamo la dimostrazione di tutta la potenza della leggenda intorno all’eroe di casa.
Il problema di questa leggenda è che nessuna delle parti coinvolte (l’eroe, i tifosi e la squadra) ha una percezione chiara delle altre due. Lo sport professionistico è già una bizzarra combinazione di ragione e sentimento. Esistono dei giocatori che vengono accumulati, valutati in quanto beni societari, impacchettati e venduti come la Tua Squadra. A questo aggiungete la leggenda che si forma fisiologicamente mentre la città assiste alla crescita del campione locale, e presto la leggenda finirà per mettere in secondo piano tutto il resto. Pensate al delirio e alla rabbia scatenati dal ripudio di LeBron James, figlio di Akron, dei Cleveland Cavaliers in favore dei Miami Heat; oppure a come la decennale ostilità fra Isiah Thomas e Michael Jordan sia stata inasprita dal fatto che Chicago, città natale e non solo di Thomas, si fosse innamorata di MJ.
I dettagli del passato di Rose sono ormai arcinoti. È nato e cresciuto nel problematico quartiere di Englewood, nella parte sud di Chicago, un posto di poco più di sette chilometri quadrati in cui nell’ultimo anno ci sono stati 16 omicidi. Brenda, sua madre, e i suoi tre fratelli maggiori fecero sì che non restasse invischiato in faccende di strada. Del padre non si hanno notizie.
Da prospetto di prima fascia, Rose scelse Memphis e coach John Calipari, e portò la squadra fino alla finale nazionale. Lì giocò in maniera incontenibile, come d’altronde aveva fatto nel resto del torneo. I Tigers erano sopra di quattro contro Kansas e mancavano meno di due minuti alla fine; poi tutto evaporò in un turbinio di mattoni ai liberi: prima quelli di Chris Douglas-Roberts, poi, a 10 secondi dal termine e i Tigers sopra di due, quelli di Rose. Successivamente la stagione intera scomparve, annullata a posteriori dalla NCAA quando si seppe che il punteggio di ammissione al college di Rose non era valido, e che quindi Memphis aveva sostanzialmente giocato con un giocatore non iscrivibile. La decisione presa rivela più cose sul mondo alla rovescia della NCAA che non su Rose (nessuno annulla i soldi dei contratti televisivi), ma questo è un altro discorso.
Quando Chicago scelse Rose alla prima assoluta nel draft 2008 (fa sorridere ricordare un mondo in cui ci si divideva tra Michael Beasley e Derrick Rose), l’appena ventenne figliol prodigo si trasformò nell’eroe cittadino: Rookie of the Year nel 2008-2009, una stagione da 62 vittorie, un remunerativo prolungamento quinquennale e poi la vittoria del premio di MVP a 22 anni, il più giovane ad averlo mai vinto.
È difficile immaginare la carriera di Rose se non fosse finito ai Bulls. Se fosse stato preso da Miami, Seattle (!!!) o Minnesota sarebbe comunque adorato nella sua città natale, ovviamente, ma siamo sicuri che, sgravato dalle speranze e aspettative di una città intera oltre che dalla pressione derivante da essere il potenziale salvatore di una franchigia, avrebbe comunque quell’aura intorno a sé? In una qualsiasi città che non fosse Chicago avrebbe giocato 37 minuti di media al suo primo anno? Il suo storico infortuni sarebbe uguale senza i logoranti ritmi di Tom Thibodeau (nei suoi primi tre anni Rose è stato in campo 36,8 minuti di media, più di qualsiasi altro collega di draft)? La lotta per il titolo di MVP 2010-2011 ruotò intorno al dibattito tra i nuovi cultori delle statistiche avanzate, il cui candidato era Dwight Howard, e i tradizionalisti per cui il premio doveva andare al miglior giocatore della migliore squadra, i quali sostenevano Rose; sarebbe riuscito a spuntarla senza lo status di eroe cittadino che lo accompagnava?
In una conversazione su Dwyane Wade, Isiah Thomas o Tony Allen è possibile che la città di Chicago non venga mai nominata. In una su Rose questo è impossibile.
Dopo i molteplici interventi alle ginocchia che gli hanno minato la fiducia, che tipo di giocatore è esattamente Derrick Rose? I Bulls riusciranno mai a prescinderne? Dal momento che si porta dietro l’etichetta del ragazzo di Chicago le risposte a queste domande sono incerte. Recentemente Rose, che nel 2011 ha firmato un prolungamento contrattuale da cinque anni e 94,3 milioni di dollari e il cui contratto 13ennale con Adidas pare ammonti a 185 milioni, ha espresso la schietta volontà di voler essere investito dal flusso di denaro che nelle prossime stagioni confluirà verso le casse della NBA:
“Sì, sono andato avanti”, ha dichiarato Rose. “Per tutta l’estate ho pensato unicamente ad allenarmi tutti i giorni e a passare più tempo possibile con mio figlio; solo a queste due cose. Adesso ho in testa la stabilità economica della mia famiglia e vedo tutti questi soldi che girano nella NBA. Sono sincero, so che presto toccherà a me decidere e non lo farò per me, ma per P.J. e il suo futuro. È questo quello a cui penso adesso”.
Senza dubbio delle dichiarazioni avventate, quelle che un professionista esperto non avrebbe rilasciato. Tuttavia sono al contempo delle frasi logiche per un ragazzo che è riuscito ad affrancarsi da Englewood soltanto grazie alla sua capacità di giocare a pallacanestro. Se un giocatore sano può sperare di giocare fino a quarant’anni circa, anno più anno meno, quanti anni ha ancora davanti un Rose con quelle caviglie?
Quando recentemente i Bulls hanno annunciato che Rose si era rotto l’osso orbitale in allenamento la notizia è stata accolta con un misto di sconcerto e scherno (il ritorno è comunque atteso per la partita inaugurale, NdR). L’incidente era l’ultimo atto di un periodo controverso per Rose, dovuto alla denuncia a suo carico per violenza sessuale. Sappiamo tutti come dovrebbe essere il finale per la storia dell’eroe di casa, ma oggi per la prima volta quel finale appare più immaginario che mai. Ci sarebbe da chiedersi se Rose ne sia già consapevole.
“Questa vita”, ha dichiarato Rose nel 2012 riferendosi al fatto di essere una star a casa propria, “non si addice al mio carattere”. Quest’anno scopriremo se è ancora vero.
Traduzione di Giacomo Sauro