Giancarlo Sacco, Bergamo ha il suo Dottor House
“L’etichetta di numero uno degli allenatori SOS mi arrivò da Dan Peterson, ed a me ha sempre gratificato"
In fondo tutto iniziò allo stesso modo, nel 1984, nella sua Pesaro che sbandava sotto la guida Casey-Bisacca e non era lecito con Gracis, Costa, Magnifico, Silvester, Zampolini, Frederick, Tillis. E allora gliela affidarono, a 27 anni, per condurre la Scavolini non solo alla salvezza, ma alla finale per lo scudetto contro l’inarrivabile Milano di Dan Peterson, D’Antoni, Meneghin e Barry Carroll.
“L’etichetta di numero uno degli allenatori SOS mi arrivò da Peterson stesso, ed a me ha sempre gratificato” racconta Sacco, che ha condotto Bergamo, matricola in affanno, ad un marzo intonso da 4 vittorie su 4 gare. Un record che gli ha consegnato il titolo di allenatore del mese ad Est. Riportando fiducia nella salvezza, in città e tra i tifosi, visti i quasi 1900 spettatori della sfida diretta con Orzinuovi.
- Sacco, quali sono gli strumenti per intervenire sul malato?
“Passione ed entusiasmo. Professionalmente è molto interessante il dover ricaricare e motivare una squadra, iniziando solitamente con non più di due-tre giorni veri di lavoro, prima del debutto”.
- La chiama Bergamo, distogliendola da quali attività?
“Stavo coltivando la terra ed i miei ulivi, che producono olio buono. A Gradara, dove vivo e che ha appena vinto il titolo di “Borgo dei Borghi”. Un bel posto, insomma”.
- Però c’è l’astinenza da panchina.
“In realtà non la soffro e per questo mi sento una mosca bianca. Più semplicemente adoro questo sport e questo lavoro, ed ancora ora mi diverto come un pazzo. Ma nessuna ansia da astinenza, pure se quando parlo con colleghi o gli agenti so bene che esiste. Se mi chiamano sono felice e contento, se non alleno sto bene ugualmente”.
- Arriva a Bergamo e cosa trova?
“Un bell’ambiente. La Società con Bartocci, uno staff tecnico preparato, lo spogliatoio. Grande disponibilità e accoglienza, pur venendo a sostituire un collega che era un’istituzione, apprezzato e che aveva fatto un ottimo lavoro. Ho ereditato una squadra priva di conflittualità interne, quindi una situazione ottimale”.
- Quale il male, allora?
“Il peso delle sconfitte e teste un po’ piene di tante cose. Le ho alleggerite, lavorando su attenzione e concentrazione. La risposta è stata immediata. Pensare solo ad allenarci bene, per giocare a pallacanestro”.
- Teste sgombre. E’ così che si va a Montegranaro, senza Ferri, e ad Udine, senza Hollis, e si vince su campi di due squadre da playoff?
“Credo sia il nostro manifesto. Loro non c’erano, ma noi non ce ne siamo accorti”.
- Ci si accorge invece che Solano ed Hollis hanno elevato il loro rendimento.
“Due bravi ragazzi, disponibili. Hollis è più navigato, un giocatore totale. Solano è più acerbo, sta uscendo adesso, ha potenzialità. E’ arrivato da una realtà dove “hai perso?… Nessun problema”. Ecco, da noi è diverso”.
- Un’addizione italiana importante, Marco Laganà, 25enne talentuoso quanto sfortunato proprio quando la A2, a Biella, lo aveva messo in rampa di lancio.
“Uno di talento vero, e con la capacità di metterlo sul parquet, che non è da tutti. L’obiettivo è non disperdere quel talento da playmaker e stiamo lavorando su ciò che un playmaker deve essere: concentrato, attento, nella posizione più bella del basket. Gli abbiamo dato un ruolo e non un parcheggio. In più ha le palle”.
- Un ruolo dove peraltro Bergamo aveva già un italiano importante e navigato, Michele Ferri, pesarese come lei.
“Ci siamo capiti subito, perché parliamo la stessa lingua... Ma non avevo dubbi, Michele è una persona intelligente. Tutti hanno un ruolo e responsabilità, in minutaggi giusti per esprimerli al meglio. L’etichetta di titolari e panchina è decisamente demodè”.
- Le piace questo 8+2?
“Rende il nostro ruolo più piacevole. Dai un’identità alla squadra. In A2 vedi giocare Treviso o Ravenna e dici “sono le squadre di Pillastrini e Martino”. E questo piace anche alla gente. Qui c’è affezione. Ma la vedo anche in qualche realtà di A, come Brescia e Trento, o la Varese di oggi”.
- Lei come Piero Bucchi, chiamato a salvare la Virtus Roma.
“E’ un argomento generazionale. Se devo pensare a Bucchi, Scariolo, Messina, Pancotto, penso a quando l’allenatore allenava e non dover fare altro. Io ho debuttato in A a 27 anni e non mi preoccupavo del fatto che “non dovevo rompere le palle”. Il nostro credo era prendere una squadra a settembre e lasciarla a giugno migliorata e di conseguenza più forte. Oggi la filosofia è sfruttare ciò che si ha”.
- In A2, quest’anno, ben sette assistenti promossi.
“E’ iniziata così anche per me, oggi forse incide di più il fattore economico. Penso però che, ai tempi, proprietari e manager come Bulgheroni, Scavolini, Prandi, Allievi fossero veri conoscitori del ruolo degli allenatori e di cosa un allenatore poteva valorizzare del capitale. Ora l’allenatore è una spesa”.
- Salvati o fregati, dalla Bosman?
“Alcuni salvati dai cambi in corsa, che hanno raddrizzato una stagione. Però quando c’erano i cartellini, ed il giocatore migliorato a fine stagione valeva più soldi di quanti erano all’inizio dell’anno, questo dava un valore tangibile al lavoro degli allenatori”.
- Cosa serve per convincerla a tornare ad allenare a tempo pieno?
“Un buon stipendio, per poi far risparmiare durante l’anno, cosa in cui credo. Alla fine spesso le Società spendono di più per cambiare, e non è il momento. E sentire fiducia in uno che si è sempre assunto responsabilità, anche sulle scelte. Senza alibi o compromessi”.
- Lavora per i playout o per una salvezza diretta che avrebbe del miracoloso?
“Noi dobbiamo solo pensare a correre. Salvarsi subito sarebbe un qualcosa di eccezionale. In realtà viviamo alla giornata, lo so che è stucchevole sentirselo dire, però è la verità”.