Giacomo Zatti, quando si è Campioni anche nella vita di tutti giorni
Bellissimo gesto dell'ex capitano della Fortitudo che ha aiutato Sebastian, un ragazzo affetto da megaencefalia
Di questi tempi la gloriosa Fortitudo, tra fallimento e revoca dell'affiliazione, non è che se la passi molto bene, ma se c'è una cosa che si è sempre sostenuto della storica Effe è il grande spirito e cuore che ha sempre animato il suo popolo ed i suoi giocatori. Giacomo Zatti, regista a dir poco peperino sia in campo che fuori, ne rappresenta l'esempio perfetto. Il capitano della Fortitudo anni '80, trasferitosi a Santo Domingo, si è reso infatti protagonista di un gesto a dir poco stupendo, ospitando Sebastian, un ragazzino affetto da megalencefalia, per poter permettergli di nuotare con i delfini. In un mondo dove troppo spesso i sentimenti vengono messi in secondo piano, azioni come quelle di Zatti danno tanta speranza e meritano una standing ovation infinita.Questo il racconto di Rossana Campisi, mamma di Sebastian, sulle pagine di www.marieclaire.itNuotare con i delfini poteva cambiare la vita di Sebastian, ma è costoso e difficile.
"Qualche mese fa una mamma in difficoltà aveva scritto una lettera a Marie Claire chiedendo aiuto. Ecco come è andata a finire...(un lieto fine è arrivato da una casualità fortuita grazie a un ex campione di basket). Si fa presto a dire “grazie”. A volte ci provi e ti senti rispondere un veloce madicché. A volte - e sono rarissime - invece lo dici male, a denti stretti, perché ti sembra una parola striminzita. E ne cerchi un’altra. Ora, ditemi come dovrei usare queste sei lettere per incastonarci dentro tutto ciò che ho vissuto con mio figlio Sebastian, un ragazzo affetto da megaencefalia. La mia è una riconoscenza in cerca di parole. Ma sarà meglio partire dall’inizio, ovvero dallo scorso aprile quando su queste pagine è stata pubblicata la storia di un sogno: far nuotare di nuovo mio figlio con i delfini, regalargli una buona dose di ultrasuoni e benessere con l’aiuto (economico) di qualcuno. E pensare che questo giornale (l’ennesimo che avevo contattato) mi sembrava «troppo elegante per la mia storia»: invece avevo sotto agli occhi l’articolo. È stato in quei giorni che ho iniziato a dire male “grazie”. Succedeva quando pensavo a chi lavora a Marie Claire, a chi la legge e a chi per caso strappa una pagina, la piega e la conserva in tasca.
Come ha fatto Giacomo Zatti, ex professionista di basket in Italia, oggi proprietario di Huracan Cafè a Playa Bavero (Santo Domingo) e compagno di Lina. Un giorno, mentre lei prova gonne e camicette in una boutique romana, lui si annoia fuori dal camerino. Afferra la prima rivista: Marie Claire. Sfoglia, sfoglia e cosa trova? “Il miracolo (o la cura) dei delfini”, ovvero l’articolo che raccontava il sogno di Seby. Ciò che è successo dopo, è iniziato con un’email in redazione («voglio regalare a Seby una settimana con i delfini dove vivo io»). Ed è diventato un sogno (realizzato). Non è facile raccontare le storie. Neanche quelle belle come i sogni. Non è facile perché ho sempre trovato parole inadeguate. È successo la prima volta davanti alla proposta di Giacomo: «Pagherò tutto io: viaggio, vitto, alloggio e nuotate con i delfini».
Le uniche cose a cui pensavo in ordine erano: perché lo fa? - cosa c’è sotto? - devo fidarmi di lui? - perché merito tutto ciò? Solo dubbi, compresi quelli di mio marito e della mia dottoressa: «Mah, non so che dirti. E poi attenta, ogni tanto lì spariscono italiani» («allora sto tranquilla, io sono di origine tedesca», le ho risposto). Dopo i dubbi, l’ansia. Cercavo informazioni sul posto, rassicurazioni per Seby (ha sempre temuto le cose nuove ), fiducia per me ma anche persone che potevano accompagnarci in viaggio. In tutto ciò, non ho mai trovato sillabe sensate per Giacomo: qualcosa di simile a un grazie. Alla fine ho fatto un gran respiro e ho detto: «Sì, verremo» e sono arrivati a casa passaporto e biglietti aerei per tre: io, Seby e Ketty, la nipote più folle a cui ho pensato, pronta a seguirci. Il respiro aveva sortito un buon effetto ma molto breve. La sensazione di inadeguatezza è ritornata ancora più appiccicosa: bastava che per un attimo pensassi a quello che stava succedendo e via con le lacrime.
Ero goffa, sì. Ma siamo partiti: sveglia alle 3 del mattino, attesa di 7 ore (la nostra compagnia era fallita e siamo finiti con un’altra) e volo di 13 (con scalo). Siamo arrivati che era buio: Sandon, l’autista con la jeep, ci aspetta per portarci nella nostra villetta, dentro un villaggio pieno di ibiscus, alberi da frutto mai visti e piscine. Lì, i nostri vicini italiani, Iacopo ed Elena, ci accolgono con un piatto di pasta al pesto e una bottiglia di acqua fresca. In quelle 25 ore di viaggio Seby non si è mai lamentato. Prima di cadere a letto dice: «Questo viaggio mi ha stancato un pochino». E io, felice, mi faccio l’ultimo pianto del giorno. L’inadeguatezza continua, vuoi per l’afa che toglie il fiato come dentro una serra (35 gradi e tanta umidità), vuoi perché dopo anni di ricerche di sponsor ce l’avevo fatta. Incontro il giorno dopo Giacomo, sui 45 anni, abbronzato, sorridente, tra i divani del suo caffè in una spiaggia immensa: mi butto al suo collo, è come se lo conoscessi da tempo, poi perdo la voce. Lui ci mette a nostro agio e dice: andate al mare, divertitevi. L’arrivo al dolphin explorer è la tappa finale di un viaggio tra pappagalli, tigri e tanti alberi.
Alla fine sbuchiamo davanti a una spiaggia bianchissima bagnata dall’Atlantico. Lì, dentro grandi vasche recintate in mare aperto, ci sono sei coppie di delfini che in genere nuotano in semilibertà. Seby indossa la giacca salvagente, Ketty lo segue e lo assiste (traducendo anche lo spagnolo dell’insegnante di sostegno): insieme si uniscono a un gruppo di turisti che pagano 150 dollari a testa per un turno di 30 minuti. Il primo giorno Seby rimane sul bordo a guardarli mentre le guide spiegano come sono fatti: 80 denti, un ombelico, la pancia rosa, la vista bifocale e un buco sulla nuca per respirare. Il resto della settimana passa tra pranzi a casa (facevamo la spesa), cene nel locale di Giacomo (tra aragoste, pesce alla griglia e le amate scaloppine al limone di Seby), spettacoli di foche, squaletti e incontri al delfinario. Ogni giorno, per mezz’ora, Seby gioca a palla con i delfini: dopo il lancio, loro la riportano indietro. E lui li premia: un pesce prelibato per Dori e qualche carezza per Picasso (che chiude gli occhi per la felicità e se ne va alzando una pinna). Lea (la più grande, 12 anni) balla il merenghe roteando in aria e Nati, il più piccolo, trascina Seby attaccato alla pinna: un’emozione indimenticabile soprattutto perché in Europa è vietato.
Giacomo rimane spesso sul bordo accanto a me. Io mi sento un’ebete, continuo a non trovare le parole. Lui si mangia con gli occhi mio figlio, lo studia, e parla poco. Quando lo fa, è per incoraggiarlo. I progressi di Seby grazie agli ultrasuoni sono visibili anche a lui: cammina meglio, parla in modo più disinvolto, sorride spesso, afferra pure la pinna per farsi trascinare e ci stupisce. Dicono che in questi casi la capacità di apprendimento aumenti del 70% e Seby inizia addirittura a comprendere lo spagnolo. C’è una cosa che rende tutto ciò meraviglioso: per i ragazzi come mio figlio, ogni azione che diamo per scontata è una conquista (per dire, l’ultima è stata lo strappo con le mani del coperchio sigillato dal vasetto di yogurt). Per questo l’unico commento di Seby è stato: «Io sono grande, mamma!».
La consapevolezza dei suoi sforzi è stata una delle due cose che si è portato a casa dal viaggio. L’altra è la certezza che, dall’altra parte del mondo, c’è un amico che ha i delfini, cucina bene, ci aspetta la prossima estate e si chiama Giacomo. Io aggiungerei anche qualcosa che forse lui non vede: gli effetti degli ultrasuoni che - i medici dicono - durano almeno tre mesi. Due giorni dopo il ritorno, ha raccolto le olive con noi in campagna da mattina a sera (prima si annoiava dopo cinque minuti) e ha vinto il campionato di canottaggio. Imprese di cui Giacomo, il silenzioso ammiratore di Seby, sarebbe stato orgoglioso.
Ma non solo lui: il socio Claudio Riggio, i direttori del delfinario, Regino Alvarez e Matteo Moro, il proprietario della villetta dove siamo stati, Fabio Bardini, e la dolce Lina. Sono tutte le persone che Zatti ha contattato per Seby. Avrebbe potuto scegliere una via più semplice inviandoci dei soldi, scaricandoli dalle tasse e mettendosi a posto la coscienza. E invece no. E io? Impacciata come sempre, l’ultimo giorno ho detto: «Giacomo, guarda com’è sereno Seby, è merito tuo». «Dei delfini semmai», mi dice. «Sebastian mi ha fatto riflettere in questi giorni e mi ha arricchito. Non possiamo pensare sempre al business o a noi stessi. Sono io che ringrazio voi».
In aeroporto c’era mio marito con cui siamo andati a festeggiare 25 anni di matrimonio. La serenità di nostro figlio è stato il regalo. A casa, la gente più vicina non ci ha mai chiesto nulla: sentivo l’imbarazzo di chi non aveva condiviso con Seby un po’ di tempo come ha fatto Giacomo. Percepivo l’effetto che fa la bontà. Stordisce. Sarà per questo che la mia cantilena (inadeguata) di ringraziamenti non si è ancora fermata. O sarà colpa delle parole striminzite? "