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Serie A 20/12/2017, 09.32

De Raffaele e Tonut a sostegno del progetto "Atleti Al Tuo Fianco"

L’Umana Reyer Venezia, campione d’Italia 2017, ha aderito al progetto “Atleti al tuo fianco” (guidato dal dottor Alberto Tagliapietra)

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L’Umana Reyer Venezia, campione d’Italia 2017, ha aderito al progetto “Atleti al tuo fianco” (guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia, e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus) con l’head coach della prima squadra maschile, Walter De Raffaele, e la guardia Stefano Tonut, campione d’europa under 20 con la maglia della Nazionale Italiana. La scommessa lanciata dal progetto è quella di parlare di cancro in maniera libera con sportivi professionisti, ponendo la luce su aspetti della quotidianità di chi sta combattendo un tumore mentre si dialoga di sport.

Riportiamo qui la testimonianza di De Raffaele e Tonut, tratta dal sito www.albertotagliapietra.com.

Walter e Stefano, benvenuti nella squadra di Atleti al tuo fianco: grazie a voi, potremo far conoscere alcuni aspetti della vita di chi affronta un tumore mentre analizziamo dei dettagli della pallacanestro. Avviciniamoci quindi all’obiettivo quotidianità raccontando alcuni particolari della vita di ogni giorno di chi è professionista nel basket. Walter, terminati gli impegni sul campo con la propria squadra, un allenatore deve dedicare sicuramente molto altro tempo alla pianificazione e programmazione degli allenamenti e di dettagli del proprio lavoro. Si riesce ad avere una vita quotidiana dove vivere aspetti che non siano in alcun modo legati al basket?

La condivisione di momenti di quotidianità con i propri affetti è l’obiettivo a cui si vorrebbe tendere, riuscendo a trovare un equilibrio fra la gestione di una squadra di basket di altissimo livello che ogni tre giorni affronta competizioni in Italia e in Europa, e la vita con la propria famiglia. Io ho tre figli, che negli ultimi anni mi hanno raggiunto a Venezia da Livorno, e momenti di condivisione, come accompagnarli a scuola, passare insieme qualche ora nel tempo che rimane libero, sono un obiettivo costante. Anche se non sempre riesco ad essere soddisfatto di quanto questo si verifichi, devo dire che sto migliorando molto sotto questo profilo. Il ruolo della famiglia è fondamentale per riuscire a seminare brevi momenti in cui si riesce a staccare la mente da una sconfitta, da un infortunio di un giocatore, da un appuntamento importante sul campo. Non si può avere sempre la testa sui problemi, proprio perché una costante analisi non è sinonimo di maggiore lucidità: continuare a pensare ad una difficoltà può portare a non spostare il proprio punto di vista per trovare nuove soluzioni. Staccare il pensiero anche grazie alla quotidianità con la propria famiglia è una risorsa indispensabile che, seppur di difficile concretizzazione, va ricercata con costanza e impegno.

Approfondiamo il tema della famiglia. Il cancro è, per definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, una malattia familiare: il percorso di difficoltà verso la guarigione non riguarda infatti solo la persona che ha ricevuto la diagnosi ma tutto il suo nucleo familiare. La famiglia diventa la base con cui condividere i momenti difficili, dentro cui trovare risorse per affrontare il percorso. Per questo è fondamentale lavorare sui rapporti interpersonali degli elementi che la compongono: essi devono diventare una risorsa, riuscendo a superare difficoltà relazionali di un passato quando non vi era ancora il cancro contro cui lottare insieme. Stefano, tu sei nato in una famiglia in cui si è sempre respirato basket: questo è stato per te un vantaggio da sfruttare o un limite da superare per diventare un cestista professionista?

Avere un padre e una madre che hanno sempre vissuto nel basket è stata senza dubbio una risorsa da bambino, quando non ero ancora in grado di scegliere il mio percorso, e queste premesse hanno permesso di indirizzarmi verso la pallacanestro. Poi, a mano a mano che diventavo più grande, la scelta di continuare è stata più personale. Il ruolo della mia famiglia è stato determinante per darmi supporto e comprensione quando non riuscivo a raccogliere i risultati individuali che invece i miei compagni raggiungevano. Alcune volte mi sono sentito un po’ pressato dagli allenatori di settore giovanile proprio perché, venendo da un nucleo familiare che respirava pallacanestro da anni, mi veniva richiesto qualche cosa in più e io non mi sentivo all’altezza delle aspettative. Lì, in quei momenti di sconforto e di frustrazione, la mia famiglia è stata decisiva: quando volevo smettere, quando volevo cambiare sport, quando io non mi sentivo sufficientemente bravo per i traguardi che mi venivano proposti. Loro sono stati i primi a credere in me, non solo nelle mie potenzialità ma anche nelle mie necessità di tempo per esprimerle, e questo è stato determinante per resistere nei momenti di difficoltà emotiva personale.

Il tempo a disposizione è alcune volte una risorsa, altre un limite. Quando una persona si sottopone alle cure chemioterapiche, inizia un ritmo costante di brevi ricoveri o sedute in day hospital intervallate da periodi di pausa di due o tre settimane. Spesso però il tempo a disposizione per recuperare tra una seduta e l’altra viene influenzato negativamente dagli effetti collaterali della terapia, che abbassano la qualità della vita in maniera imponente. Quando essi svaniscono, ci si deve già preparare per un nuovo incontro con l’ospedale e la terapia: è fondamentale allenare la mente all’interno di un ritmo così elevato di elementi di stress che possono accumularsi pericolosamente. Coach De Raffaele, voi state affrontando una stagione con un impegno sul campo ogni tre giorni, tra campionato e Champions League: come lavori sulla mente tua e dei tuoi giocatori per vivere al meglio ogni singola sfida, impedendo alle scorie della partita precedente di manifestarsi nella gara da affrontare?

Avendo un impegno ogni tre giorni, dovendo affrontare costanti trasferte, alcune volte anche molto distanti, il lavoro primario lo effettuo su me stesso, perché il rischio è di portarsi dietro proprio le scorie della partita precedente, sconfitta o vittoria che sia. Il pericolo sta nell’accumulare e sommare le sensazioni residue delle diverse tappe ravvicinate senza avere la lucidità di affrontarle e analizzarle nella loro singola identità. Noi ad esempio veniamo ora da una serie di sconfitte consecutive tra campionato e coppa; la forza sta nel separare le singole sfide, cogliendo ad esempio la differenza tra perdere una sfida e venire sconfitti, come ci è effettivamente successo in Turchia. La mente è la chiave: si devono separare i diversi motivi di ogni sfida persa cercando di portarsi dietro quel che una partita perduta ha insegnato, anche se spesso non hai nemmeno il tempo di analizzare che già devi essere pronto alla nuova sfida. Per questo diventano determinanti i collaboratori, lo staff nella sua interezza: il lavoro d’équipe offre la possibilità di affrontare con più precisione diversi dettagli, aiutando così la lucidità dell’analisi della partita compiuta, che deve diventare poi un capitolo chiuso e completato per passare a focalizzarsi da evoluti sulla sfida successiva.

È fondamentale, attraverso la psico-oncologia, aiutare i pazienti a crearsi delle nicchie di pace interiori, dentro cui trovare rifugio quando ci sono momenti in cui il corpo risponde in maniera negativa di fronte all’aggressività e all’invasività del tumore. Riuscire a isolarsi internamente rispetto alle condizioni esterne è una risorsa in certi momenti determinante. Stefano, come fai tu da sportivo nei momenti decisivi della partita, quando 10.000 persone urlano per influenzare da fuori la gara, a trovare la lucidità per eseguire un gesto tecnico sul quale ti alleni da sempre, come ad esempio un tiro libero, senza che esso sia influenzato dai fattori esterni?

Io credo che la bravura del giocatore sia mettere in pratica in partita quel che fa in allenamento, indifferentemente dalla condizione esterna che si verifica. In casa o in trasferta, in vantaggio o in svantaggio, all’inizio o a pochi secondi dalla fine, il giocatore forte riesce a fare la partita più costante possibile, mettendo a frutto il lavoro in palestra che giorno dopo giorno gli ha permesso di costruire uno strato di certezza su cui far poggiare i propri gesti. Questo è ovviamente l’obiettivo a cui anch’io voglio tendere, però per me è un percorso: ogni volta che entro in campo, voglio migliorare qualcosa di questa evoluzione. Non sempre è facile, non sempre ci riesco, però il lavoro per evolvere sotto questo profilo sta nel concentrarsi sull’esecuzione di ciò che hai preparato negli anni, un gesto semplice che ha bisogno semplicemente di esprimere il frutto del lavoro costante in palestra.

Affrontiamo ora due temi importanti in oncologia: diagnosi e prognosi. Nel momento in cui una persona riceve una diagnosi di tumore maligno, si orienta subito con il pensiero alla prognosi, per capire se sarà felice o infausta. Eppure, ci sono storie di diagnosi molto severe in fase iniziale che, con le dovute terapie, si trasformano in imprese di guarigione. Walter, tu lo scorso anno da allenatore di Venezia hai scritto un’impresa che segna la storia di questa società: la vittoria di uno scudetto che, ad inizio campionato, non era in alcun modo pronosticabile. Come si raggiunge un traguardo che all’inizio di un percorso pare impossibile da concretizzare?

Qualsiasi cosa si faccia, la differenza è data dalle motivazioni; noi abbiamo avuto la fortuna di avere un gruppo con grandissime motivazioni di vario tipo: salire di livello, dimostrare di valere la categoria, di crescere come club. La bravura, e anche la fortuna, è stata che ognuno ha messo le proprie personali motivazioni al servizio della squadra. Noi ci siamo spesso posti degli obiettivi intermedi, vivendo alla giornata e senza veramente guardare in avanti; ce ne rendiamo conto ancor più quest’anno che, con lo scudetto cucito addosso, stiamo commettendo l’errore di guardare molto avanti. La scorsa stagione abbiamo vissuto ogni gara come una vera, grande, singola sfida nella quale riversare le nostre ambizioni e motivazioni. Il tutto si è ancor più apprezzato nelle situazioni di emergenza, quando avevamo fuori qualche giocatore, come ad esempio Stefano: tutti si sono sacrificati per permettere il passo avanti della squadra. In quest’ottica, la consapevolezza è aumentata durante l’anno e la certezza è giunta dopo la sconfitta nelle Final Four di Tenerife in Champions League: lì abbiamo capito che serviva qualcosa in più, ma che mancava solo qualche dettaglio, e non ci siamo più fermati. Non ci siamo mai detti “Vinciamo lo scudetto”, era un traguardo troppo distante e troppo grande, noi abbiamo solo voluto essere competitivi giorno dopo giorno, singola sfida per singola sfida: in questo modo abbiamo portato a casa un risultato clamoroso, la vittoria dello scudetto.

Guardiamo ora invece alla situazione inversa. Quando un paziente riceve un referto di un esame strumentale che certifica un miglioramento, c’è il rischio che possa percepire quel passo in avanti come la situazione decisiva per la guarigione. Questo è un tranello per la mente umana, perché rischia, in un eventuale lieve peggioramento successivo, di subire un contraccolpo emotivo di difficile gestione. Attraverso la psiconcologia bisogna costruire una mente forte in grado di guidare momenti determinanti come questo. Stefano, tu sei stato campione Europeo under 20 con la maglia della Nazionale, dopo di che hai costruito e certificato la tua carriera da cestista: ti è mai capitato di trovare delle difficoltà inaspettate dopo un traguardo così grande, che avrebbe potuto darti la sensazione di aver già completato la salita faticosa per diventare un cestista in un’età molto precoce?

Penso di poter rispondere a questa domanda ripercorrendo le tappe che ho incontrato nella mia crescita nella pallacanestro. Prima dell’Europeo vinto in Estonia, ero già catapultato alle soglie del professionismo tra la B1 e la A2, però mi allenavo solo con i grandi, gente più esperta, che veniva pagata mentre io non ancora. Io mi misuravo con loro ma allenavo solo me stesso, per cercare di capire dove potessi arrivare. Da lì in avanti, hanno incominciato ad arrivare le convocazioni per i raduni della nazionale U20, quindi io avevo un nuovo obiettivo di allenamento: farmi trovare pronto per il giorno del raduno, un appuntamento per me molto prestigioso e importante. Così mi sono guadagnato un posto prima nei 24 convocati d’estate fino a figurare nei 12 dell’Europeo che, partita dopo partita, sono arrivati alla medaglia d’oro. Successivamente a questo traguardo, il mio obiettivo principale era diventato di giocare, mettere a referto minuti per certificare il mio diventare giocatore di basket. L’anno della svolta è stato quando sono arrivato a Venezia, perché lì dovevo testare me stesso per vedere se fossi anche solo all’altezza di reggere degli allenamenti con giocatori di così alto livello. All’inizio sì ho trovato diverse difficoltà, poi grazie anche al lavoro di coach De Raffaele, sono riuscito a concretizzare quello che avevo sempre sognato, vincendo addirittura lo scudetto. Certo però sono dovuto passare attraverso la sensazione di non essere all’altezza, di non farcela, conoscendo infortuni che avrebbero potuto fermare il mio percorso sportivo. Però credo che anche star fuori dal campo, osservare da un punto esterno tutto quello che è necessario per formare una squadra vincente, mi sia servito per migliorare i miei aspetti extra sportivi. A volte contribuisce a farti crescere qualcosa che temevi rovinasse tutto, con me è andata così.

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E. Carchia

E. Carchia

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